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Autore: Arthur Miller

Luogo: Roma, Teatro Eliseo

Data: 22 ottobre 1964

Categoria: Prosa

Dopo la stagione romana lo spettacolo andò in scena a Firenze, Teatro della Pergola, 3-13 dicembre 1964; Genova, Politeama Genovese, 15 dicembre 1964; Torino, Teatro Carignano, 12 gennaio 1965.
Nella stagione successiva 1965-66: Milano, Teatro Manzoni, 1 novembre 1965; Bologna, Teatro Duse, 30 novembre 1965; Napoli, Politeama, 10 dicembre 1965.


Zeffirelli vide la commedia a Broadway nel gennaio 1964, e si dimostrò interessato ad acquisirne i diritti di rappresentazione per l’Italia. Miller era già in trattative con Marcello Mastroianni, che avrebbe voluto metterla in scena con la regia di Luchino Visconti, ma non era in grado di precisare le date del proprio impegno. Così Miller si accordò con Zeffirelli, che rinnovò la collaborazione con Giorgio Albertazzi e affidò il ruolo di protagonista a Monica Vitti, allora attrice pluripremiata per le sue interpretazioni nei film di Michelangelo Antonioni.
La commedia non convinse, ma lo spettacolo fu accolto favorevolmente. Alcuni critici furono tentati di confrontarlo con quello che Visconti mise in scena quasi contemporaneamente a Parigi, con Michel Auclair e Annie Girardot. Nella sua autobiografia "Svolte. La mia vita", Miller scrisse: “Eravamo a Parigi per la versione di Luchino Visconti con Annie Girardot, che trovai imprecisa. Nonostante i suoi film sapientemente costruiti, mi parve che Visconti avesse mancato l'idea fondamentale della commedia, che considerava come una sorta di rassegna delle primitive perplessità sessuali degli americani. La messinscena di Franco Zeffirelli con Monica Vitti e Giorgio Albertazzi fu di gran lunga più incisiva. Zeffirelli non esitò a dare a Quentin l'angoscia di un uomo che non sta spiegando, ma cercando se stesso: un approccio tutto diverso, che io trovai toccante e persuasivo. La scenografia era costituita da sei o otto rettangoli d'acciaio concentrici che si facevano sempre più piccoli con un effetto prospettico - era come guardare dentro una macchina fotografica a soffietto da dietro verso l’obiettivo - e i velari di velluto nero tra un rettangolo e l'altro consentivano agli attori di entrare e uscire di scena per tutta la profondità, che era notevole, del palcoscenico, mentre silenziosi montacarichi facevano salire e scendere i mobili creando e cancellando i luoghi dell'immaginazione di Quentin in modo pressoché istantaneo, come in un sogno o in una fantasticheria a occhi aperti. L'accoglienza che lo spettacolo ebbe nelle principali città italiane mi confermò il valore della commedia.”